I giovani non si sentono parte dell’UE – e hanno ragione
Le sue strutture remote e calate dall’alto richiedono un nuovo approccio guidato dai cittadini, adatto all’era digitale. Cominciamo estendendo l’Erasmus agli studenti delle scuole
Editoriale di Francesco Grilli per The Guardian.
L’ex presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha presentato lo scorso anno la sua tanto attesa ricetta per rilanciare l’economia europea. Il rapporto Draghi è stato giustamente accolto come un brusco risveglio per un’Unione Europea troppo compiaciuta della propria obsolescenza. Draghi ha concluso che servirebbe un aumento della spesa pubblica pari a 800 miliardi di euro all’anno per porre fine a anni di stagnazione. Se l’Europa non riuscirà a colmare il divario con i suoi rivali, ha avvertito, andrà incontro a un “declino lento e doloroso”.
Eppure, un ingrediente mancava nella ricetta di Draghi. Nelle quasi 400 pagine della sua tabella di marcia per salvare l’UE, la parola “democrazia” compare solo tre volte (una delle quali nella bibliografia). Al contrario, “integrazione” appare 96 volte e “difesa” ben 391 volte. È vero che il rapporto di Draghi era esplicitamente dedicato al futuro della competitività europea (e non alla visione complessiva dell’Europa del futuro). Ma se l’UE non riesce a coinvolgere maggiormente i suoi cittadini, sarà difficile ottenere quella ulteriore integrazione che Draghi ritiene indispensabile per rendere più competitivo un mercato unico ancora frammentato e per rafforzare la capacità difensiva dell’Europa.
Una cosa è certa: il vecchio metodo decisionale su cui una generazione di leader europei ha fatto affidamento è ormai obsoleto. È urgente riformare l’UE, ma l’approccio calato dall’alto non è più adeguato.
È vero, il dibattito sul “deficit democratico” è vecchio quanto l’UE stessa. Le elezioni dirette del Parlamento europeo, la prima e unica assemblea internazionale eletta in questo modo, furono introdotte nel 1979 proprio per rispondere a questa critica. Tuttavia, almeno fino alla fine del secolo scorso, la questione della democrazia europea veniva considerata un tema di nicchia, adatto ai centri studi – qualcosa di auspicabile per completare un progetto di integrazione guidato da un’élite illuminata.
Oggi, lo scenario è cambiato radicalmente: i poteri del Parlamento europeo sono aumentati nel tempo, ma solo circa la metà degli aventi diritto vota alle elezioni europee. Meno del 50% degli elettori sceglie le due “famiglie” politiche (centrodestra e socialisti) che per decenni hanno garantito il consenso necessario al funzionamento del progetto europeo. E, dato ancora più preoccupante, secondo un recente sondaggio dell’istituto francese Cluster17, le percentuali di cittadini europei che ritengono l’UE non democratica, bensì burocratica e scollegata dalla realtà, sono più alte proprio tra le fasce più giovani della popolazione (fino a diventare maggioritarie tra gli under 34).
Maggiore competitività richiede un bilancio dell’UE più consistente (attualmente pari a solo l’1% del PIL) e più risorse per i “beni pubblici europei” – beni per cui esiste una chiara giustificazione economica a produrli a livello comunitario, come ad esempio i servizi di telecomunicazione satellitare o i treni ad alta velocità trans-europei. Ma non si può chiedere nuova tassazione per finanziare spese comuni senza garantire maggiore rappresentanza. Una difesa comune più efficace appare una direzione di buon senso, viste le minacce esistenziali che l’Europa si trova ad affrontare e le inefficienze di 27 bilanci militari distinti. Tuttavia, ciò richiede che l’opinione pubblica percepisca chiaramente che questa spesa porterà benefici a ogni cittadino della comunità che intendiamo difendere.
Eppure, forse sorprendentemente, secondo il sondaggio di Cluster17, i giovani si sentono meno europei dei loro genitori, preferendo definirsi cittadini del mondo.
Senza un demos europeo, sarà difficile creare un esercito dell’UE – se questa sarà la direzione presa dai dibattiti sulla sicurezza – ma anche costruire una vera democrazia europea. E senza cittadinanza né partecipazione, rischiamo un ritorno di fiamma politico come quelli già visti in occasione del Green Deal o delle misure di austerità seguite alla crisi finanziaria globale e a quella dell’eurozona, anche quando le politiche erano teoricamente giuste.
Lo scorso mese, circa 100 tra decisori politici, parlamentari, giornalisti, accademici e studenti provenienti da tutti i principali Paesi europei (sia membri dell’UE che esterni) si sono riuniti a Siena per discutere come un’Europa del futuro possa affrontare alcune delle sue sfide più grandi, come la difesa comune, le guerre commerciali globali e l’intelligenza artificiale. Il risultato è stato un documento che pone come priorità il coinvolgimento diretto degli elettori in tutte le principali decisioni.
Una recente iniziativa della Commissione europea – un panel di cittadini in cui 150 cittadini europei selezionati casualmente hanno contribuito a decidere come spendere i fondi europei in futuro – è stata considerata un buon inizio.
Ma la conferenza di Siena ha identificato alcuni cambiamenti essenziali affinché le raccomandazioni dei cittadini possano essere integrate in modo sistematico. Nella pianificazione del bilancio europeo, ad esempio, è necessario cambiare il linguaggio affinché i cittadini possano comprendere quali obiettivi si vogliono raggiungere con ogni piano di spesa. La logica di bilancio dovrebbe essere “a base zero” (che in contabilità significa non basata su modifiche incrementali rispetto alla spesa passata). Un simile approccio potrebbe garantire che la “democrazia partecipativa” diventi uno strumento comune nel processo decisionale dell’UE.
Non meno cruciale è un insieme di “azioni positive” proposte da un gruppo guidato da Luca Verzichelli dell’Università di Siena per promuovere un vero demos europeo. La proposta più sorprendente – e quella che ha raccolto il consenso più ampio – è stata rendere gratuito e obbligatorio il programma Erasmus per tutti gli studenti dell’UE nella scuola secondaria e nell’istruzione superiore.
Secondo il think tank Vision, che ha organizzato la conferenza di Siena, un quarto dei fondi che l’UE attualmente destina agli agricoltori sarebbe sufficiente per finanziare una versione ampliata dell’Erasmus. Non ho dubbi che i risultati sarebbero davvero trasformativi.
Il deficit democratico non è solo un problema europeo. Le istituzioni rappresentative stanno soffrendo in generale di una sorta di obsolescenza tecnologica. Internet ha cambiato radicalmente il controllo dell’informazione, che è potere. Ciò richiede una trasformazione radicale dei meccanismi attraverso cui il potere viene acquisito, contenuto ed esercitato; e degli strumenti con cui trasmettiamo le preferenze individuali per convertirle in scelte collettive.
L’UE ha bisogno di maggiore chiarezza sul proprio scopo e deve andare ben oltre il coinvolgimento superficiale dei cittadini, volto solo a conferire una legittimità di facciata ai suoi messaggi. Ma ha anche il vantaggio – paradossale – di essere un progetto incompiuto. Questo significa che ha la flessibilità per sperimentare nuove forme di partecipazione, policy-making e cittadinanza. Deve riconoscere con urgenza che l’unico modo per proteggere la democrazia è adattarne le forme a un contesto tecnologico radicalmente diverso.