COP28 , il conto alla rovescia e il filo rosso tra Dolomiti e Dubai

Dal 30 novembre, a Dubai, si terrà la 23esima Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico.

Editoriale di Francesco Grillo per Il Sole 24 Ore

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Tra le tante evidenze sul cambiamento climatico, il numero più preoccupante e oggettivo viene forse dai satelliti che misurano la superfice dell’Antartide. Nel luglio di quest’anno, il continente ghiacciato si è rimpicciolito rispetto all’estate precedente del 15% e il completo scioglimento della calotta produrrebbe un innalzamento del livello dei mari di 60 metri.

L’umanità procede veloce verso il proprio iceberg. E, paradossalmente, a tentare di invertire la rotta sarà - tra poco più un mese, al vertice delle Nazioni Unite sul clima (COP28) - l’amministratore delegato della compagnia petrolifera che gestisce i giacimenti di Abu Dhabi (l’ADNOC). Eppure, Sultan Al Jaber sembra proporre un approccio che può essere più efficace di quello che ha finora prodotto tante parole e pochi risultati.

Il vertice di Dubai di dicembre è importante perché farà il punto (il “global stock take”) sul rispetto degli Accordi di Parigi che 195 Paesi ratificarono nel 2016. Un conto sulle effettive realizzazioni presentato alla Conferenza globale delle Dolomiti sul cambiamento climatico che ha anticipato i contenuti di COP qualche settimana fa a Trento.

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Sette anni fa, ci si impegnò a ridurre le emissioni del 43% entro il 2030: dopo sette anni, le emissioni sono cresciute di un ulteriore 10%. Per recuperare lo svantaggio, Dubai propone ulteriori tre traguardi da centrare nei sette anni che restano: triplicare la produzione di energie rinnovabili (includendovi l’energia nucleare); dimezzare l’energia consumata a parità di produzione; raddoppiare l’idrogeno (che può essere vettore di fonti pulite).

Molto si parlerà di compensazioni (il fondo “LOSS AND DAMAGE” e quello per l’adattamento a eventi estremi) che i Paesi ricchi dovrebbero pagare a quelli che sono più vulnerabili. E di come distribuire lo sforzo tra Occidente e Paesi di più recente industrializzazione (Cina, India). E però le stesse cifre in gioco – 200 miliardi di dollari, laddove la transizione energetica ne richiede 3.500 all’anno – conferma che continuiamo a litigare, mentre affondiamo insieme.

Sotto la lente d’ingrandimento è finita la dichiarazione di Sultan Al Jaber che – da protagonista dell’economia fossile - ha riconosciuto che è dalla stessa estrazione di petrolio, gas e carbone che bisogna progressivamente uscire. Tuttavia, piuttosto che dai compromessi lessicali, bisogna partire dalla constatazione dell’assoluta necessità di trovare un metodo nuovo.

L’idea degli emiri è di rendere trasparente il coinvolgimento dei colossi dell’economia fossile in negoziazioni che hanno, sempre, condizionato. Esse hanno le risorse (molto cresciute durante la guerra in Ucraina), le tecnologie e la necessità di adattarsi ad un cambiamento che rischia di travolgerle.

Non è detto che a Dubai si riescano a ottenete risultati concreti. Ma finora, montagne di parole hanno prodotto impegni assolutamente insufficienti. Serve molto più pragmatismo. E la visione sufficiente per non continuare a lasciare il cerino della crisi in mano a chi dovrà affrontarne le conseguenze.

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