Il commercio globale non funzionava neppure prima di Trump
Il ruolo dell'Europa per una riforma
Articolo di Francesco Grillo per Il Messagero.
Questo sarà uno dei temi alla Sesta Conferenca di Siena sull'Europa del futuro.
Il saggio sui “principi di economia politica” di David Ricardo è uno dei più eleganti trattati scritti nella storia della scienza – l’economia - che cerca di consigliare ai governi come utilizzare risorse scarse per massimizzare il benessere di tutti. E, tuttavia, il problema di quelle costruzioni classiche è che considerano un mondo più povero e stabile. Ricardo dimostra con l’utilizzo di semplici formule matematiche (fa l’esempio dell’Inghilterra e del Portogallo che devono dividersi la produzione di vino e stoffa), che conviene sempre la massima specializzazione. Tale convinzione, sopravvissuta per due secoli ha prodotto, però, vulnerabilità che Ricardo non poteva prevedere. Se è solo uno il Paese che produce stoffa (o pannelli solari), basta una pandemia (o la chiusura dello Stretto di Suez) per impoverire tutti. È tale vulnerabilità che fornisce forza politica ad una ricetta - quella dei dazi – che, tuttavia, rischia di farci finire dalla padella nella brace.
A guardare i dati dei primi mesi che hanno seguito l’ormai celebre “giornata della liberazione” (dal disavanzo commerciale) celebrata da Donald Trump il 2 aprile con la pubblicazione dei dazi “reciproci”, sembrerebbe che la cura stia raggiungendo il proprio obiettivo. Ad aprile, il deficit commerciale degli Stati Uniti si è dimezzato (passando da quasi 140 a poco più di 60 miliardi di dollari) e ciò interamente dovuto ad un crollo delle importazioni. Nel frattempo, i dazi (quelli al 10% che sono rimasti nel giro di annunci smentiti nel giro di qualche ora) producono circa 300 milioni di dollari al giorno di entrate addizionali per un Paese con un deficit pubblico elevato (7,1%); e, nonostante, ciò l’inflazione al 2,2% (come nell’area euro) sembra sotto controllo.
Ma aldilà dei risultati che si leggono nel brevissimo periodo, riportare i dazi ai livelli che non si vedevano da un secolo (dagli anni, cioè, nei quali gli Stati Uniti erano ancora lontani dall’essere il “centro del mondo”), può fare male a tutti. E molto male all’economia che ha letteralmente inventato la globalizzazione. Gli Stati Uniti importano molto di più degli altri perché ciò risponde ad un accordo non sempre esplicito – “noi lavoriamo sul disegno dei prodotti e voi vi occupate della manifattura, esattamente come succede per i telefoni intelligenti di APPLE” – che gli stessi americani hanno proposto al mondo. E, del resto, per tornare ai numeri, ciò è dimostrato dal fatto che i calcoli che fa lo stesso dipartimento del commercio americano vede la crescita del PIL degli Stati Uniti decrescere dallo 2,4% nell’ultimo trimestre del 2024 ad una contrazione del – 0,2% nel primo del 2025. Per effetto anche delle tariffe.
Trump coglie, tuttavia, un più di un “grano di verità” nel denunciare che il commercio mondiale non funziona più. A renderlo vulnerabile sono i monopoli che per eccessiva fiducia negli scambi, abbiamo lasciato che si formassero lungo quelle che chiamiamo “catene di generazione del valore” e che attraversano un’economia globale che è cresciuta sulle specializzazioni. L’esempio più famoso è quello dei pannelli solari: la quota di mercato di un solo Paese (la Cina che ha avuto il merito di saper programmare) è superiore al 90% per la produzione dei componenti che ne sono essenziali (celle, moduli, semiconduttori). Anche senza arrivare ad una vera e propria guerra, basta, in teoria, la chiusura di un porto per far precipitare nel caos il sistema (e la sua transizione energetica).
Si tratterebbe di immaginare uno strumento che vada oltre quell’organizzazione ospitata a Ginevra (WTO) che nacque per risolvere dispute tra Paesi e che, peraltro, è oggi paralizzata dalla mancata nomina (proprio da parte degli Stati Uniti) di giudici che quelle dispute dovrebbero risolvere. Abbiamo bisogno di una struttura capace di, innanzitutto, studiare e identificare le vulnerabilità nelle catene di fornitura. Valutare le probabilità che le strozzature si verifichino e l’impatto che possano avere per definire priorità. Che elabori e promuova strategie che ne diversifichino il rischio. Soprattutto attraverso investimenti in tecnologia che rendano meno essenziali certe forniture detenute monopolisticamente da un solo Paese (e non è solo la Cina a detenere posizioni di forza, perché dall’agricoltura alla moda sono molteplici le dipendenze ci cui le stesse multinazionali non hanno una mappa).
La soluzione è una riforma profonda dell’intero sistema che eviti una frammentazione della globalizzazione in macroaree che danneggerebbe soprattutto l’Europa che esporta una quota del proprio PIL (circa un terzo) molto maggiore della Cina o deli Stati Uniti (sono al 10%). L’Unione Europea potrebbe proprio nella riforma dei meccanismi di governo del commercio globale trovare una delle missioni che potrebbero restituirgli leadership: sia perché ne ha un interesse assai forte; sia perché può legittimamente posizionarsi come mediatore tra le grandi potenze. Deve trovare – solo – la fiducia di poter essere ancora capaci di poter governare e non subire le vicende che hanno liquidato un ordine mondiale che non c’è più.
Referenze:
David Ricardo (1817). Principi di economia politica e dell'imposta.
The Gurdian (2025). Gone in 40 days: how Trump’s ‘liberation day’ tariff assault unraveled. Link.
OECD (2025). Global Minimal Tax. Link.
Financial Times (2025). A tariff crisis is exactly the right time to reform the WTO. Link.