Riformare il governo del clima
I tre nodi da sciogliere
Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero.
Non serve più neppure la scienza. Ormai, per avere la certezza che qualcosa sta velocemente cambiando, basta un termometro. Secondo le centraline dell’osservatorio europeo COPERNICUS, ogni singolo mese, negli ultimi dodici mesi è stato il più caldo dal 1951. E che qualcosa sia cambiato lo dice l’esperienza personale: soprattutto quella delle persone anziane e degli agricoltori. Eppure, il mondo ha finora quasi solo chiacchierato. E le politiche adottate hanno quasi sempre avuto l’effetto di spaventare le persone. Parte – consistente – del problema sono strumenti di governo dei problemi globali (non solo il cambiamento climatico; ma anche le guerre; e l’intelligenza artificiale) che furono pensati per un secolo finito 24 anni fa. È arrivato il momento per cambiarli; cominciando da una riforma di quella conferenza dell’ONU sul clima (COP) di cui a BAKU, A Novembre, si celebra la ventinovesima, inutile edizione.
L’evidenza più immediata del cambiamento climatico è, letteralmente, nelle nostre tasche: basta aprire sul nostro telefono “intelligente”, l’applicazione METEO che – giorno per giorno – ci dà contezza delle differenze tra temperatura massima prevista per la giornata e quelle registrate dal 1970: anche oggi, stiamo vivendo – ora per ora – l’ora più calda degli ultimi 54 anni. Questo nuovo normale condiziona direttamente la vita di tutti: il numero delle notti tropicali (quelle che registrando una temperatura mai inferiore ai 20 gradi, non consentono un sonno normale), aumenta più a Milano (dove raddoppiano a 101 rispetto ad una media di 58 registrata nel periodo tra il 2006 e il 2015) che a Roma (73 contro una media normale di 43). Ciò non potrà non avere un effetto su beni essenziali: la salute delle persone; il prezzo delle case al quale è legata la sostenibilità dello stesso debito pubblico. La drammatica concretezza delle questioni globali sta, del resto, colpendo –– una delle regioni più ricche d’Italia: l’Emilia-Romagna allagata in questi giorni, per la terza volta in un anno.
E, tuttavia, dopo 29 conferenze dell’ONU sul clima e dopo, in particolar modo, quella di Parigi che nel 2016 decise che il mondo avrebbe dovuto abbattere le emissioni di CO2 del 43% entro il 2030, i risultati sono deludenti. Otto anni dopo l’accordo Parigi, le emissioni sono aumentate invece che diminuire e l’Europa che pure ha cominciato a contrarre l’inquinamento che produce, ha già superato un incremento della temperatura di 2,5 gradi rispetto alle medie del periodo preindustriale (laddove a Parigi si era fissato in 1,5 gradi la linea rossa da non superare).
Sono, invece, proliferati i divieti. Spesso non applicabili. E che soprattutto fanno l’ipotesi – irrealistica - di poter applicare la stessa soluzione in contesti diversi. E le promesse generiche che non riescono ad evitare che in un mondo frantumato dalla sfiducia reciproca, si finisca con il fare molto poco.
Tre le idee – emerse lo scorso fine settimana nel corso di una conferenza globale sul clima che si è tenuta a Trento la scorsa settimana. Esse verranno presentate a Baku e incidono sui tre i nodi che bisogna sciogliere per governare il clima.
Innanzitutto, la questione finanziaria. I dati di Climate Funds Update dicono che ci sono, contemporaneamente, troppi fondi – complessivamente 29 - che mobilitano troppi pochi finanziamenti – ad oggi sono attivi 3500 progetti, finanziati per 13 miliardi di euro. I fondi vengono quasi interamente dagli Stati di alto reddito e vengono spesi quasi esclusivamente in Paesi in via di sviluppo. La proposta è di ridurne il numero a 4 (uno per gli investimenti che mitigano il cambiamento climatico; quelli che rendono i territori più resistenti ai suoi effetti; uno interamente dedicato alla ricerca; e uno alle sperimentazioni); di coprire anche luoghi nei Paesi più “ricchi” che dal cambiamento climatico sono colpiti (dalla nostra Emilia-Romagna, alla Florida); e di usare il finanziamento pubblico con l’obiettivo di mobilitare quanto più possibile quello privato.
C’è, poi, il nodo del processo decisionale. Attualmente sul clima (come su qualsiasi altra questione globale) si decide all’unanimità tra 198 Stati. Il numero degli attori da mettere d’accordo va fortemente ridotto incoraggiando i Paesi del mondo a unire – per macroregioni – il proprio voto e l’Unione Europea potrebbe dare l’esempio e l’Africa può seguire. A ciò fanno eccezioni tre Paesi – Stati Uniti, Cina e India – che da soli rappresentano il 43% del PIL mondiale e il 55% delle emissioni.
Infine, va rivisto il COP stesso come momento di incontro di centinaia di migliaia di attivisti, imprenditori, amministratori e accademici. Molto meglio sarebbe farlo durare di più (attualmente è concentrato in tre settimane) e di articolarlo per grandi temi (uno potrebbe essere quello delle batterie) e settori industriali (ad esempio, quello agricolo, per ragionare sulle conseguenze della mutazione climatica). La chiave è ridurre gli affollamenti senza senso; e aumentarne il valore in termini di condivisione di conoscenza tra persone che vengono da tutto il mondo.
Nell’incontro di Trento durante il quale si è discusso di questa e altre proposte, si è vista una convergenza tra Paesi – India, Cina, Stati Uniti, Brasile, Qatar e Emirati – che – su altri temi – rifiutano di parlarsi. Può essere proprio il clima il terreno sul quale sperimentare – in maniera pragmatica – una riforma del modo in cui proviamo a governare la globalizzazione, Una riforma di cui il mondo ha un bisogno immediato.
Referenze:
Climate Funds Update (2024). Cumulative data on the pledges, deposits and the project approvals made by multilateral climate change funds. Link.