Quei 60 miliardi di euro alla Russia e il nodo gordiano che l'Europa deve tagliare
La necessità di un nuovo metodo decisionale nell'Unione Europea.
Editoriale di Francesco Grillo su Il Messagero
Sessanta miliardi EURO. La misura del problema strutturale che l’Unione Europea deve affrontare con urgenza, è data da un contatore che il Centro per la Ricerca sull’Energia e l’Aria Pulita (il CREA che è un THINK TANK non governativo che ha sede ad Helsinki) dedica alla misurazione di come sono cambiate le esportazioni di petrolio e di gas dalla Russia all’Unione Europea, nelle settimane che sono seguite all’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
Dal 24 Febbraio sono 60 i miliardi di EURO quelli che l’Unione Europea ha, appunto, trasferito ai conti correnti delle principali aziende esportatrici di energia russe. È, ancora, più interessante il dato del grafico che dice che, negli ultimi tre mesi di guerra, gli acquisti di GAS sono stati superiori – ogni singolo giorno - a quelli che si registravano il giorno prima che cominciasse la guerra.
È una cifra – spesa in tre mesi – simile a quanto la Russia spende in un anno in difesa e, forse, la più sorprendente misura di quanto sia grande la distanza tra la retorica che le istituzioni europee mettono in certe intenzioni e il topolino che montagne di negoziazioni riescono a generare. In realtà, URSULA VON DER LEYEN aveva chiesto il 4 Maggio al Consiglio d’Europa di varare un sesto pacchetto di sanzioni per raggiungere l’obiettivo di azzerare le importazioni entro sei mesi; dopo un mese di negoziazioni, la resistenza di un solo Paese – l’Ungheria – è stata sufficiente per doverci accontentare di un compromesso (solo sul petrolio che la Russia potrà esportare altrove) che arriva peraltro in ritardo.
È questo l’esempio più recente del “male oscuro” che l’Europa deve curare con urgenza se non vogliamo scivolare nell’irrilevanza. Ed è questo il problema al quale ha cercato una risposta la Conferenza sul futuro dell’Europa che si è tenuta a Siena lo scorso fine settimana. L’Incontro organizzato dal THINK TANK Vision e dall’Università di Siena, ha riunito tutte e cinque le fondazioni politiche che forniscono idee ai cinque grandi gruppi politici europei (socialdemocratici, conservatori; liberali; popolari e verdi) e costituisce un esperimento di confronto trasversale che può essere utilissimo per ragionare su come dare all’Unione Europea la capacità di governare un secolo completamente diverso da quello per il quale fu disegnata.
Le conclusioni della conferenza presentano proposte sui temi decisivi: il ruolo dell’Europa in una battaglia digitale che sembrava essere solo tra USA e Cina; la divisione di compiti tra Europa e USA nell’ambito della NATO; la revisione del grande “patto verde” che fu concepito dalla VON DER LEYEN prima che scoppiassero guerre e pestilenze; i meccanismi democratici che sono essenziali per poter immaginare di trasferire poteri ancora più importanti dagli Stati all’Unione; una prima valutazione di come sta andando il grande finanziamento (NGEU) che l’Unione ha dedicato alla ripresa post pandemica in maniera da poter capire se e come NGEU può diventare permanente.
Tutti i progetti che la conferenza sta perfezionando in quello che i suoi partecipanti chiamano “manifesto”, dipendono, però, dalla capacita di sciogliere il nodo gordiano dal quale siamo partiti: come riusciamo a decidere in maniera più veloce rispetto a crisi velocissime?
Se tutti – dai federalisti agli euroscettici – concordano che l’attuale assetto dell’Unione non è più adeguato, le ricette divergono. Il punto di vista più pragmatico è quello, però, che MACRON ha accennato senza esplicitarlo. Integrazioni più forti si fanno su specifiche priorità politiche e con chi ci sta. Non ci si può, ad esempio, ridurre a “premiare” proprio chi si oppone alla maggioranza – ORBAN in questo caso – comprandone il consenso con concessioni su altri dossier. Per il blocco delle importazioni di energia dalla Russia può essere sufficiente che un numero più piccolo di Paesi definisca un piano preciso con le tempistiche per la riduzione delle importazioni, meccanismi che compensino i Paesi più esposti, un coordinamento con Stati che dell’Unione non fanno parte ma che hanno lo stesso interesse (innanzitutto USA e Regno Unito) e una tassa che vada a finanziare quello che potrebbe essere l’inizio di un’unione energetica.
L’Unione del futuro sarà, probabilmente, questa. Un metodo - più che un trattato - per far partire progetti comuni che possono riguardare diversi Stati Membri per arrivare ad integrazioni meno ambigue di quelle che oggi ci uniscono.
Integrazioni che se destinate a durare, devono passare attraverso l’approvazione dei cittadini che le conferiscano forza. Il metodo dovrà, peraltro, prevedere anche procedure sia per aggregarsi più velocemente (è quello che chiede l’Ucraina), sia per dividersi se il matrimonio dovesse non funzionare.
L’Europa ha ancora i tratti del sogno concepito da una generazione di grandi leader usciti dalla guerra. Nonché, il più grande progetto di unione tra Stati perseguito attraverso il consenso e non il conflitto. Quel sogno rischia però di appassire per la distanza tra retoriche e risultati.
È la stessa democrazia che deve porsi il problema dell’efficienza se non vuole allontanarsi dai bisogni delle persone. È il momento di tagliare i nodi gordiani che frenano quel progetto e per farlo servirà quella visione che richiede grandi dosi di pragmatismo.