Italia: ripartire dai territori
La democrazia del futuro può partire solo dalle realtà locali.
Articolo di Claudia Saccà
- “Sei di destra, di centro o di sinistra?”
- “Beh, nel marasma generale, se devo sceglierne uno preferisco Tizio, ma non c’è nessuno che infondo mi rispecchia e del quale mi sento di sposare le sue ideologie, forse solo alcune”.
Questo è il sentimento generale con il quale la maggior parte degli italiani si reca alle urne. Il sentore comune è quello che ci sia una classe politica legittimata da chi vive, in fondo, una crisi di rappresentanza e che nella difficoltà di trovare dei punti di riferimento e delle sedi in cui collocarsi procede a tentativi, a “possibilità”.
Soprattutto i giovani, come segnala una ricerca realizzata dall’ Osservatorio "Generazione Proteo", si dicono interessati alla politica, tanto che alle urne vanno in massa, ma non si sentono rappresentati da nessun partito o movimento politico.
Un sentore che accomuna molti italiani è che ci sia una classe politica legittimata da chi vive, in fondo, una crisi di rappresentanza e che, nella difficoltà di trovare dei punti di riferimento, procede a tentativi, a “possibilità”.
In qualsiasi talk televisivo, tra le strade, nei giornali, nello stesso modo di operare nelle istituzioni, emerge chiaro il problema di una politica che è totalmente slegata dalla realtà. E l’idea è quella di capire come si pone esattamente questo contrasto, alla luce di uno scenario nel quale, non solo i partiti, almeno quelli tradizionali, non sono più gli attori esclusivi del panorama governativo, ma i protagonisti della rappresentanza politica convergono progressivamente, soprattutto negli enti intermedi, verso forme di civismo. Movimenti civici che si sono posti in alternativa al mal governo dei partiti che si sono dimostrati non in grado di svolgere la funzione di mediazione sociale.
Per cercare di dare una chiave di lettura al tema, bisogna infatti condurre un’analisi più approfondita dei livelli in cui si articola la democrazia e di dare uno sguardo a ribasso, e da vicino, su quelle che sono le istituzioni politiche a dimensione locale che definirei istituzioni “primarie”, in quanto sono i primi interlocutori delle esigenze della collettività, delineano il primo confronto tra istituzioni e cittadino. Vengono anche chiamate “le anime della Repubblica”. Bisogna riflettere su una visione generale per poi passare allo specifico espediente della democrazia rappresentativa e del sistema politico istituzionale. Dall’Italia dei comizi, degli slogan, delle frasi ad effetto, degli influencer/blogger politici, all’Italia reale. Dando rilievo doveroso agli attori principali che governano, in prima battuta, questa realtà. In sostanza l’Italia dei territori.
L’Italia è ultimo paese UE per tasso di natalità, per crescita del PIL, l’ultimo per investimenti in cultura, terza per tasso di disoccupazione giovanile, penultimo per numero di laureati.
Per dare un volto all’Italia dell’inizio del XXI secolo partirei da quei dati che tradotti in chiave di sviluppo economico e potenzialità di mercato ci pongono, inevitabilmente, in battuta d’arresto. L’Italia è l'ultimo paese UE per tasso di natalità, per crescita del PIL, l’ultimo per investimenti in cultura, terza per tasso di disoccupazione giovanile, penultimo per numero di laureati. Dopo 150 anni, ci ritroviamo ancora a parlare di un paese ad economia e sviluppo duale. Le regioni del Sud sono, secondo Eurostat, tra le più povere dell’Europa intera e il mezzogiorno si sta spopolando. Per la prima volta la Francia ha superato l’Italia come produzione manifatturiera. Alla rivoluzione tecnologica che sta già segnando un’altra epoca, noi parteciperemo solo come spettatori. L’Italia come l’Europa resterà fuori dal dibattito.
Vuole essere una panoramica per dar luce alle congiunture sfavorevoli? No. Vuole essere un impulso a riprendere dei temi che la politica dovrebbe porsi e mettere al centro del confronto. Non solo per cercare di dare una nuova credibilità al dibattito politico, che guardando la realtà dei fatti è una virtù che deve essere riconquistata, ma anche perché è quello che sostanzialmente chiede l’Italia. È una forte domanda politica per la quale non c’è un’offerta. Se c’è, è limitata.
Il cambiamento culturale di vasta portata a cui assistiamo ha mutato il campo d’azione e le richieste che la società civile pone alla politica. E nonostante ci sia un quadro in costante mutamento fatto di nuove alleanze, nuovi partiti, o movimenti che dir si voglia, resta ancora diffuso quel sentimento di sfiducia nelle istituzioni e nella classe dirigente. Il che non si traduce in un “ripudio” da parte dei cittadini di avvicinarsi alla politica o ad uno scarso interesse nella cosa pubblica. Al contrario. C’è una generazione, la quale sin dall’infanzia ha subito gli effetti di una depressione economica e del declino di una classe dirigente smascherata come corrotta e clientelare, che è stanca di subire. Che avanza con più tenacia, più consapevolezze, più responsabilità. Una generazione attenta all’ambiente, che cerca di affermare i propri diritti, che giudica il voto come un dovere civico, ma soprattutto che non si pone più il tema del “tu a chi appartieni?” Ma si pone il tema di “il Popolo dov’è?”, “Cosa decide?”, “Dove si manifestano gli effetti dirompenti delle scelte nazionali ed internazionali?”
E la risposta, a mio avviso, va ricercata partendo dalle componenti elementari e dai capisaldi su cui poggia la democrazia: le città, i territori.
Sono proprio le comunità locali il vero luogo della partecipazione politica ed è il Comune che rappresenta il motore dello sviluppo di un territorio.
Le questioni più acute e di impatto del nostro tempo sono prodotte a livello globale da forze extraterritoriali. E' però nelle città, negli 8.000 campanili italiani, che irrompono le conseguenze sociali. E se parliamo di popolo e democrazia non possiamo che richiamarli, in quanto sono proprio le comunità locali il vero luogo della partecipazione politica ed è il Comune che rappresenta il motore dello sviluppo di un territorio.
“La politica trova nelle città il suo territorio ideale. Nelle città risiedono le funzioni, i ruoli e il significato del fatto politico. Nelle città si determinano le condizioni migliori di produzione, il contagio, la diffusione di teorie, di idee, di lotte e delle pratiche della politica” (Di Matteis, Lanza, Nano, Vanolo. 2010). Ed è realmente così. Non a caso il “Comune”, a differenza degli altri Enti della PA, è l’unico a nascere come vero ente politico e non come ente amministrativo. Non a caso vige quel principio di equiordinazione incardinato nella nostra Costituzione, che dà attuazione, con la Riforma del titolo V, al modello reticolare: non è più la Repubblica a dividersi in Regioni, Province e Comuni, ma sono i Comuni, le Province e le Regioni a costituire la Repubblica. Dando così, almeno su carta, l’importanza e la voce all’ambito di autonomia dei soggetti dell’ordinamento, in un’ottica in cui più un territorio valorizza l’autonomia decisionale dell’Ente più valorizza la democrazia.
Ma qual è il potere decisionale di cui parliamo? Fare l’amministratore oggi non è semplice. Bisogna muoversi in contesti particolarmente pressanti in cui, spesso, le condizioni per operare e scegliere sulle politiche del territorio sono precluse.
La politica nazionale, e quella largamente intesa, ha costretto gli amministratori locali, politici veri, che si confrontano con il consenso ogni giorno e che si misurano con i problemi della collettività, a stare ai margini, allontanandoli dai problemi veri. Ogni nuova legge finanziaria lo dimostra con i tagli di risorse agli Enti locali, nonostante questi siano coloro i quali hanno contribuito di più negli ultimi anni alle politiche di risanamento dei conti pubblici.
La spesa corrente dei comuni, come ricorda l’Anci in una nota rivolta al Governo sulla legge finanziaria scorsa, si è ridotta sistematicamente dal 2010, lo stock di debito mostra un costante trend decrescente, il personale comunale si è contratto di circa il 15% in un contesto di nuove funzioni evolute, riforme da attuare, oneri burocratici a cui far fronte, competenze nuove e digitali. Non facendo altro che irrigidire sempre di più i bilanci comunali. Tutto questo fortemente penalizzante per le comunità e per le prospettive di sviluppo del territorio, costringendo i comuni o a dichiarare dissesto oppure a far ricorso alla leva fiscale per tenere i conti in ordine, senza alcuna utilità aggiuntiva per i cittadini. Ciò si traduce spesso in un modus operandi degli amministratori locali che poco hanno a che fare con l’attività politica e che più somiglia ad un mestiere di esattore delle scelte politiche nazionali, collocando le poche risorse a disposizione su ciò che è veramente prioritario e concentrando i loro sforzi solo per garantire i servizi essenziali per la propria comunità.
Bisogna ripartire da quelle esperienze civiche di amministratori che hanno fatto dei loro territori un modello di riferimento.
Senza possibilità per questi ultimi di avere una visione globale, di guardare all’orizzonte e riuscire a programmare perché si è sempre in continua emergenza, e ancor di più, non si ha la possibilità di decidere. Gli enti locali non hanno la capacità di definire la propria agenda di sviluppo e si riducono sempre di più a territori di frontiera che ratificano decisioni prese da altri.
Pertanto, bisogna invertire la tendenza. Bisogna ripartire dai territori e da quelle esperienze civiche di amministratori in cui, seppur con mille difficoltà e in condizioni di scarsità di risorse finanziarie ed umane, hanno fatto dei loro territori un modello di riferimento. E la ricetta del successo è stata spesso quella di collocare al centro non più le esigenze dei partiti, ma i bisogni concreti dei cittadini, con coraggio, con impegno con la competenza che si richiede a chi amministra la cosa pubblica. Spesso uniti da una visione del territorio che antepone gli interessi di quest’ultimo alle logiche partitiche, dando impulso alle forme di partecipazione di politica civica.
Nello stato confusionario attuale ci siamo illusi che agitare e conclamare i problemi sia il punto di svolta, sia sinonimo del trionfo, ma non è questo far politica. Invece, far politica significa compiere un lavoro di studio per conoscere e comprendere una realtà complessa, disporre degli strumenti necessari per fronteggiarla ed avere una visione che ci conduca alle soluzioni. Lo scudo migliore che ha la politica per difendersi resta la competenza, restano le idee, resta la libertà.
Gli slogan passano, i contenuti restano. Per questo e per le sfide che ci apprestiamo ad affrontare dobbiamo ripensare e innovare la politica.