Riportare alla politica il patto di stabilità
La priorità delle prossime settimane
Editoriale di Francesco Grillo su Il Messaggero.
Qualche giorno fa il direttore di questo giornale chiedeva con forza di “tornare ad occuparci delle vere priorità” (dopo essere stati inghiotti a rete unificate dalla vicenda di un ministro della Repubblica). Tra le priorità vere c’è il documento con il quale – entro il 20 settembre – l’Italia deve proporre alla Commissione Europea “un piano di aggiustamento fiscale di medio periodo”. E subito dopo (il 27 settembre) il governo consegna la Nota (NADEF) che imposta la prossima legge finanziaria. Al di là dei nomi non immediatamente chiari, si tratta di definire quali sono, appunto, le priorità che ci diamo come Paese. Ma molto è in gioco anche per l’Europa: dovrà trovare un metodo per rendere più incisivo un coordinamento di politiche fiscali che ha finora oscillato tra aspettative rigorose e dimostrazioni di impotenza. Coordinamento serio che è precondizione ad un drastico aumento degli investimenti: il rapporto Draghi stima che siano necessari circa 800 miliardi all’anno per far rientrare il continente in una battaglia che, al momento, riguarda solo Stati Uniti e Cina.
Uno dei problemi più grandi del “patto di stabilità” che Romano Prodi definì - con una delle sue più celebri quotazioni - “stupido”, era la sua assoluta incomprensibilità. Tra il 2011 e il 2013, il “patto” fu riformata con un lavoro legislativo titanico una montagna di atti legislativi - sette regolamenti, una direttiva e il Trattato conosciuto come “fiscal compact” – scandito da formule la cui decifrazione richiedeva un dottorato in econometria (famosa è quella usata per calcolare il “rapporto tra debito e PIL aggiustato per il ciclo economico”). I risultati continuarono ad essere inadeguati: nel periodo di vigenza del patto, in media gli Stati Membri hanno passato 9 anni con un deficit sul PIL superiore al 3% (che è il limite oltre il quale scattano procedure di infrazione). Ed è, ancora più paradossale, che le violazioni della regola furono più sistematiche tra i Paesi che hanno adottato l’EURO (dei 25 anni di vigenza delle regole, la Francia ne ha passato 17 oltre il limite). Del resto, il nuovo patto di stabilità di febbraio 2024 che prende il posto di quello sospeso dalla pandemia, torna a chiedere di portare il debito pubblico sul PIL al 60%: ma i Paesi dell’EURO sono in media al 91%.
Molto giusta è la decisione, dunque, di ricominciare da un progetto di riduzione progressiva degli squilibri (in 4 o 7 anni), chiedendo di controllare poche variabili. L’obiettivo unico è il valore del debito e del deficit che si proietta a fine periodo, sulla base delle scelte fatte ogni anno; la leva per raggiungerlo è la sola spesa pubblica discrezionale (prescindendo, dunque, dal finanziamento di progetti europei e di
ammortizzatori sociali che scattino automaticamente in recessione) che determina un avanzo primario (depurato, cioè, dagli interessi pagato sui BTP).
Per l’Italia significa andare da un deficit primario (oggi lo Stato spende, anche senza considerare gli interessi, più di quello che incassa) dell’1,1%; ad un avanzo del 3,1% nel 2031: ciò significa ridurre la spesa pubblica discrezionale dello 0,6% all’anno. Un percorso molto più chiaro e certamente più fattibile di quello che diventò il problema numero uno di tutti gli esecutivi che hanno provato a
governare l’Italia per i primi vent’anni di questo secolo. A patto, però, di programmare, appunto, una trasformazione della spesa pubblica che deve essere graduale ma fatta di scelte chiare. In termini di settori (la sanità? le scuole?) da proteggere per non frantumare ulteriormente la società italiana (usando magari in maniera intelligente la tecnologia); di costi che non portano valore (come è stato il 110%) o che consolidano privilegi in un Paese che paga in pensioni quattro volte di quello che spende in asili, scuole e università.
Un processo di trasformazione come questo deve però coinvolgere l’opinione pubblica italiana, E coinvolgere tutti gli schieramenti politici per non essere compromesso dal pendolo elettorale. Si tratta di dare democraticità alle scelte fiscali e di farlo a livello sia italiano che europeo. Perché è la stessa Europa ad essere posta di fronte a domande che un rapporto come quello DRAGHI indicano come ineludibili.
Saranno sufficienti le semplificazioni del nuovo Patto di Stabilità? Quali meccanismi si possono immaginare per riportare grandi Paesi (come la Francia) che deviino dai processi di aggiustamento alle traiettorie promesse? Come si possono costruire percorsi che siano non solo di stabilità, ma di crescita e di riforma evitando l’illusione che ci sia una ricetta valida per tutti?
A queste questioni proverà a dare una risposta la grande conferenza sull’Europa del Futuro che si terrà il prossimo fine settimana (dal 12 al 14 settembre) e alla quale partecipano le fondazioni politiche di tutti e cinque i grandi partiti politici europei (dai conservatori della Meloni fino ai Verdi). La ospita – a Siena – il Paese che deve “aggiustare” i propri conti più degli altri. Ma che può dare un contributo di idee decisivo.
Il pragmatismo può disegnare proposte che superino gli antichi schemi che hanno spezzato l’Europa in famiglie politiche che condividono più di quanto non facciano pensare i social media; un continente che sembra ancora frantumato in Paesi fintamente frugali e altre “cicale” che hanno trovato la forza di reinventarsi (Portogallo, Grecia). Dalla passione per le soluzioni può arrivare dall’Italia, da Siena, persino, una visione nuova che riporti regole come quelle fiscali al servizio di un progetto che deve tornare ad essere politico. Per riuscirci è necessario ricominciare ad occuparci – con un approccio nuovo – delle priorità che condizionano la vita di tutti.