Oltre gli iperinvestimenti nei modelli linguistici di grandi dimenisoni

Tre mega opportunità per l'Europa 

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Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero e Il Gazzettino 

"Gli Stati Uniti inventano; la Cina copia; l’Europa regola”. Non è chiaro di chi sia questa semplificazione che circola da anni nelle università americane. E che cattura solo un pezzo delle grandi tendenze tecnologiche che determineranno – molto di più di quelle geopolitiche che tanto appassionano i talk show – di chi sarà il futuro. È certo però che sulla ricerca sulla “intelligenza artificiale” che consente di dialogare con un robot capace di analizzare infinite quantità di informazioni per dare una risposta, l’Europa ha perso il treno. Tuttavia, ne potremmo trovare almeno altri tre, facendo un po' come i cinesi nei primi dieci anni di questo secolo: usare l’invenzione altrui come leva per trasformare una società intera. Dovrebbe essere questo il punto di partenza di quella politica industriale di cui tutti parlano e che ha trovato nella spagnola, socialista, Teresa Ribera, la commissaria europea che può darle sostanza.

 

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 FONTE: VISION SU DATI STANFORD UNIVERSITY 

Il rapporto Draghi misura il gap di investimenti che l’Europa ha la necessità di colmare subito per non abbandonarsi a un “declino agonizzante”: circa 800 miliardi di dollari all’anno. Ancora più significativo può essere, però, misurare la distanza tra Europa e i suoi principali competitor in specifiche aree. Negli investimenti in Intelligenza Artificiale (AI): gli Stati Uniti hanno negli ultimi dieci anni speso quasi 350 miliardi in ricerca; che è tre volte più di quello che ha investito la Cina; che, a sua volta, ha speso tre volte più dei 27 Paesi dell’Unione messi insieme. Tali distanze si traducono in proprietà intellettuali che sarà molto difficile riprodurre: la sola Alphabet può contare su venti “larghi modelli linguistici” (il fondamento dell’AI), laddove tutte le aziende europee messe insieme ne posseggono solo due. In questo scenario rincorrere gli americani è un’impresa riservata ai soli cinesi che hanno interessi, scale e talenti che glielo consentono. Cosa può fare allora l’Europa? In realtà, come avverte il settimanale inglese THE ECONOMIST, stavolta essere stati i primi ad occupare la frontiera dell’innovazione (first movers) potrebbe non bastare. E ciò per due motivi. Innanzitutto, il problema dei “modelli” lanciati negli ultimi due anni da Silicon Valley è che sono troppo “larghi”. Forniscono risposte incorporandovi tutta l’informazione che è disponibile sulla rete e ciò rende quelle risposte non sufficientemente precise (specialmente se le volessimo usare per diagnosticare una malattia o per muovere un’automobile senza conducente). Per correggere l’errore pesano la qualità (che è un concetto relativo all’utilizzo che se ne vuole fare) di ogni singola informazione attraverso computazioni statistiche lunghe: ciò fa crescere in maniera esponenziale i costi di addestramento del robot. E l’energia consumata per rispondere anche a una sola domanda.

Il secondo problema è che l’AI è ancora una “soluzione alla ricerca di un problema”. I leggendari programmatori californiani sono bravissimi ma finora sono riusciti a “monetizzare” il proprio talento estraendo ricavi (enormi) solo quasi dalla pubblicità. L’AI può cambiare completamente la sanità o l’educazione, ad esempio, smentendo chi – ad esempio in Europa – vede nelle macchine solo il pericolo dell’alienazione. Ma a Palo Alto non hanno alcuna idea di come funzionano settori industriali e servizi pubblici rimasti praticamente gli stessi che frequentavamo prima di mandare la prima e-mail. Ed è qui che l’Europa potrebbe trovare tre grandi opportunità di sviluppo.

Costruire partendo dalla tecnologia disponibile, modelli di AI più specifici: specifici, ad esempio, a risolvere i problemi della giustizia in un Paese come l’Italia; o a prevedere, più accuratamente, le conseguenze del cambiamento climatico nel medio termine e a suggerire cosa fare.

La seconda strada è usare la tecnologia per far fare un salto di produttività a settori industriali nei quali abbiamo tradizione: ad esempio, nell’agrifood che può migliorare la propria produttività con tecniche molto più precise; o, persino, nell’industria della difesa che deve ripensarsi radicalmente osservandoquanto la tecnologia sta cambiando i conflitti in Ucraina o in Libano. Infine, l’Europa potrebbe avere l’esperienza per riorganizzare con le tecnologie digitali processi di produzione di beni pubblici (dall’abitazione alla mobilità) nei quali possiamo muoverci prima degli altri. Per riuscirci, però, sono necessarie competenze e quadri regolatori nuovi. Oltre che grandi investimenti che sono necessari ma che hanno il difetto di costare molto (anche sul piano politico). Quanto alle competenze, non dobbiamo più neppure riferirci a quelle strettamente tecniche. Abbiamo bisogno di imprenditori che ricomincino a immaginare come la tecnologia può rivoluzionare il proprio lavoro. E il pragmatismo sufficiente per poter accompagnare tali trasformazioni. Oggi, sembra prevalere nelle grandi aziende una pigra gestione di un posizioni dominanti che si stanno erodendo; e in quelle più piccole la rassegnazione di doversi accontentare di nicchie. 

Come discusso durante la 5a Conferenza di Siena sull'Europa del Futuro, è necessario, poi, avere il coraggio di affiancare all’ (eccessiva) regolamentazione del digitale, la deregolamentazione di settori che ancora oggi sono protetti. Esporre in maniera selettiva le aziende europee ad una concorrenza che anche negli Stati Uniti e in Cina è frenata, può – meglio di centinaia di miliardi di investimenti – far emergere nuovi campioni.

Molti sono rimasti sorpresi dal fatto che Ursula von der Leyen abbia riunito la competenza per la transizione energetica e quella della competizione per assegnarle allo stesso commissario designato, Teresa Ribera. Tuttavia, è proprio la vice primo ministro del governo spagnolo che ha la possibilità, unendo le due leve, di dare un senso concreto all’idea di dotarci come Europa di una politica industriale.

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