La Crisi Demografica e il Sogno di Atreiu

Perché le società invecchiano, perdono voglia di fare figli e cominciano a scomparire?

Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero.

Atreiu

I demografi e buona parte degli Stati di più consolidata industrializzazione (includendovi ormai anche la Cina) cercano affannosamente di invertire una tendenza che comincia a sembrare inesorabile. Ma è Atreiu, l’eroe – ragazzo, protagonista di uno dei film e libri più famosi degli anni Ottanta, che fornisce nella “Storia Infinita” una spiegazione di un fenomeno che gli economisti fanno fatica ad interpretare. Prima dello scontro finale con un gigantesco lupo che ha avuto l’ordine di eliminarlo, il mostro gli rileva che è la crescente incapacità degli uomini di concepire sogni che sta sgretolando il suo mondo (nel film si chiama Fantàsia).

È l’assenza di obiettivi capace di dare un senso al futuro che sta facendo scivolare tutto nel nulla. Un’assenza di progetti che è funzionale ad un potere che può essere fermato solo da un sogno nuovo.

Quelli della demografia sono, in realtà, non solo i numeri più devastanti del declino di un Paese come l’Italia, ma anche la dimostrazione di come siano sempre meno efficaci le semantiche degli economisti per governare le questioni che stanno definendo il ventunesimo secolo. Vent’anni fa, in Italia si registravano mezzo milioni di nascite e altrettanti decessi; dopo un quarto di secolo le nascite sono scese sotto le quattrocentomila unità e, nel frattempo, le morti sono diventate settecentomila. Sono i dati dell’anagrafe che certificano meglio di quelli del PIL – che spasmodicamente commentiamo ogni tre mesi – una di quelle mutazioni che gli storici chiamano di “lunga durata”. Gli “italiani che abitano in Italia” stanno progressivamente scomparendo.

Quello dello svuotamento delle culle è una preoccupazione antica e nulla però sembra invertire la tendenza. Nel tempo è stata resa più conveniente il congedo dal lavoro per le mamme (come fa l’ultima finanziaria); incoraggiando anche il padre ad assumersi la responsabilità dell’accudimento (e a concedersene il diritto). Vengono concessi bonus sui prodotti per l’infanzia e detrazioni fiscali. Nel Piano Nazionale per il Rilancio e Resilienza (PNRR) ci sono investimenti cospicui negli asili che l’ultima manovra comunque paga per chi ha già un figlio. Qualcuno, invece, si spinge a consigliare di usare come leva senza costo l’espansione di alcuni “diritti” (ad esempio, quello di adottare). E, infine, tutti sembrano, ormai, riconoscere che abbiamo bisogno di migrazioni più regolate, più mirate.

I risultati dicono che queste misure non sono inutili: secondo Eurostat, Italia, Spagna e Malta sono sia i Paesi che meno spendono in politiche per la famiglia e quelli con tassi di natalità più bassi. Alcune misure sono poi più efficaci di altre (un euro speso in asili e scuole vale più di uno sconto sui pannolini).

 

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E, tuttavia, il Paese che fa meglio in Europa - la Francia che registra 1,84 nascite per donna – è, comunque, distante dal tasso (2,1) sotto il quale la popolazione diminuisce. La grande difficoltà a rianimare società che sembrano svuotarsi (interi Paesi ma anche singoli borghi) permane e suggerisce che c’è qualcosa che gli economisti non riescono a vedere. E che i soldi pubblici (comunque scarsi) non possono comprare.

 

Lo dimostra la relazione tra reddito pro capite e natalità nel confronto sia tra Paesi diversi, sia per lo stesso Paese, in momenti diversi della sua storia. In Africa, il numero di nascite per donna continua ad essere più elevato (anche se sta diminuendo) che in Europa, nonostante il fatto che l’Europa sia ovviamente più ricca. Nell’Italia del primo dopoguerra si facevano più figli, nonostante il fatto che, oggi, facciamo fatica a concepire un mondo che, come quello, viveva senza lavatrice e senza frigoriferi.

È probabile che stiamo scomparendo non solo perché non investiamo più in politiche di famiglia, ma anche perché non abbiamo più – proprio come suggeriva il nemico di Atreiu – un sogno. Individuale, come gli italiani che crescevano aspettando le olimpiadi del 1960. O collettivo, come quello che unisce gli israeliani impegnati per la propria sopravvivenza (e, però, paradossalmente, anche a Gaza hanno uno dei più alti indici di natalità del mondo). Avremmo bisogno di uno scopo (“purpose”) capace di darci senso. Ed è difficile trovarlo in un contesto nel quale i telefoni sembrano aver spento, persino, la voglia di viaggiare per arrivare in mondi di cui vediamo istantaneamente un surrogato digitale.

Potrebbe riuscirci l’idea di ciò che chiamiamo male “transizione energetica”. Immaginare di ribaltare il modo in cui produciamo, distribuiamo, consumiamo energia per “salvare il mondo” dai nostri stessi errori, potrebbe essere un proposito collettivo. Tuttavia, abbiamo finora concepito questa trasformazione come un noioso decreto deciso dall’alto. Un’idea potrebbe essere, invece, quella di ricominciare dallo studio e dallo sport. Dall’impegno sociale che potrebbe, persino, trasformarsi in servizio civile obbligatorio concepito davvero come occasione per diventare tutti più resilienti rispetto a crisi di cui rischiamo di perdere il controllo.

Di sicuro, dovremmo recuperare il coraggio che spinge Atreiu a rischiare – persino la vita - per salvare un sogno. Ma anche la ragione che ci dice che, in fondo, senza sogni siamo già morti.

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