L'Intreccio delle Infrastrutture: Il Ruolo di Haifa nella Geopolitica Globale
Un'analisi sul porto di Haifa, al centro di due ambiziosi progetti infrastrutturali e sulle sfide che affronta in mezzo a conflitti regionali
Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero.
La cosa che più colpisce di Israele, chiunque la visiti per la prima volta, è la sua dimensione. Tutto è molto piccolo – dalla chiesa del Santo Sepolcro alla stessa Gerusalemme – rispetto allo spazio che questa terra occupa nell’immaginazione di un’umanità divisa. In uno spazio grande quanto il Piemonte (includendovi entrambi gli Stati che l’ONU cerca di farvi convivere), si accavallano gli uni sugli altri, simboli sui quali sono letteralmente costruiti le civiltà del mondo. E non si può fare a meno di chiedersi come mai gli uomini abbiano tenuto così pericolosamente vicine visioni così diverse. Ciò è vero anche ad Haifa che è silenziosamente una delle città più strategiche del Mediterraneo. Quella nella quale si intrecciano due dei più ambiziosi progetti del ventunesimo secolo. Ed è, forse, nel porto di quella che fu la prima capitale di Israele, la ragione di una guerra senza senso.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il porto di Haifa fu quello attraverso il quale arrivarono i coloni decisi a costruire uno Stato nuovo. Oggi quel porto è l’unico luogo attraversato dai due più grandi progetti infrastrutturali del pianeta: il corridoio marittimo della “via della seta” che la Cina lanciò dieci anni fa per collegare a Shanghai a Venezia, attraverso il canale di Suez; e quello che dall’India passando da Dubai, arriverebbe fino a Trieste, attraversando la penisola arabica con una nuova ferrovia ad alta velocità. Entrambi i progetti passano per Haifa. E rischiano di finirvi se la guerra dal confine tra Israele ed Egitto si allargasse fino a quello tra Israele e Libano.
Ad Haifa si sta giocando, in effetti, da qualche anno una importante partita tecnologica e commerciale. Nel 2021, all’azienda che gestisce il porto di Shanghai fu assegnata la gara che le concede la gestione del nuovo terminal di HAIFA. Pochi mesi dopo, la multinazionale indiana guidata dal miliardario Gautam Adani – vicinissimo al primo ministro Modi – si è aggiudicata l’acquisto del resto del porto.
Anche ad Haifa, come a Gerusalemme, si accavallano due visioni del mondo in un luogo relativamente piccolo. Quel porto movimenta meno della metà delle tonnellate di merci che si scaricano a Trieste ed è, però, strategico per tre ragioni: è favorito dall’essere porto naturale e si colloca al centro del Mediterraneo, proprio come Gioia Tauro; è attaccato al medio oriente dal quale arriverebbero via treno, le merci dagli scali di Dubai e i combustibili fossili della Regione; e dovrebbe essere protetto da un sofisticato apparato di sicurezza, costruito da chi – più di chiunque altro – è costretto a convivere con il proprio nemico.
È stata l’idea di arrivare da HAIFA sul tavolo del negoziato che stava portando sauditi e israeliani alla normalizzazione. Ma anche su quello che ha avvicinato all’Arabia (alleato del progetto indiano), lo stesso Iran che fa, invece, parte della via della seta. I Paesi emergenti si muovono, del resto, in maniera pragmatica, meno ideologica dell’Occidente. Valutando le convenienze accordo per accordo. Fino alla guerra successiva scatenata, magari, da chi – per ragioni altrettanto economiche, si oppone alle pacificazioni che i grandi lavori infrastrutturali richiedono. Il conflitto di Gaza rischia di congelare tutti. Sia gli indiani, che i sauditi. Sia anche i cinesi che hanno, appena, celebrato il quarto forum della “via della seta” che ha dovuto registrare meno partecipazione (e l’uscita dell’Italia).
A Pechino così come a Delhi e nelle grandi istituzioni finanziarie, la guerra pone dunque un problema strategico rilevante: come faccio a progettare le grandi infrastrutture globali di cui il mondo ha bisogno in un tempo così instabile? Chi può finanziare autostrade e ferrovie di grande dimensione se rischio di chiuderle per guerra? O per una crisi climatica che chiede porti a emissioni zero? La guerra di Gaza, che si aggiunge a quella dell’Ucraina, pone la parola fine a progetti troppo grandi per non essere fragili; e propone quattro criteri per riorganizzare la strategia delle infrastrutture che attraversano Paesi diversi.
Il futuro sarà fatto, innanzitutto. di infrastrutture più piccole e modulari che consentano un veloce reindirizzamento di traffici che si interrompano. Ciò avrà conseguenze sul piano di una geopolitica che sarà sempre più fatta di alleanze tra Stati che a geometria variabile e senza pretendere “patti di ferro”, permettano di riadattarsi alle crisi. Gli interventi saranno sempre più attenti all’ambiente (proprio come il porto di HAIFA aggiudicato sulla base di un capitolato che insiste su soluzioni tecnologiche che garantiscano la neutralità). E, infine, aldilà degli slogan sulla reimportazione di pezzi di catene produttive (“RESHORING”), certamente sarà conveniente costruire modelli più distribuiti di generazione di risorse critiche – soprattutto energetiche – in maniera da gravare di meno su reti logistiche congestionate.
È Israele, in molti diversi sensi, il centro del mondo. Quello che è attraversato da tutte le strade. Il luogo che dimostra efficacemente che la vera soluzione è quella di cercare pragmaticamente equilibri che non saranno mai perfetti.