Il sogno di Dubai e....
.....il fantasma di Metropolis.
Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero e Il Gazzettino del Nord Est.
Uno dei film più influenti nella storia del Cinema risale a cento anni fa. Il regista tedesco Fritz Lang prova ad immaginare una città – Metropolis - che diventa la rappresentazione di un futuro collocato ai nostri giorni. Ad osservare affascinati una metropoli come Dubai non si può non pensare a quella visione che diventò manifesto del futurismo e ispirazione di grandi film di fantascienza. Più che a New York o a Shanghai, a Dubai l’uomo ha creato dal nulla un mondo fatto di grattacieli sfavillanti, eleganti metropolitane di superficie, fiumi e isole artificiali. Un mondo rapido nel quale convive un’economia che sembra poter comprare tutto (compreso il nostro calcio); e milioni di migranti che sopravvivono con poche centinaia di euro al mese per tenere i figli all’università in Pakistan o Sri Lanka. Un futuro veloce di cui l’Europa non può non tener conto cullando un senso di superiorità che non ci possiamo più permettere.
Cinquantamila abitanti nel 1970. Novecentomila nel 2000. Oggi sono quasi quattro milioni. Con un’età media di 27 anni e per l’85% immigrati che vengono da tutto il mondo. Sono i numeri della demografia a dire meglio di quelli del Prodotto Interno Lordo del successo (o del declino) di una società. Quelli di Dubai sono importanti perché indicano una strada di sviluppo ad un’intera Regione che sta cercando di uscire da un lungo periodo di ricchezza fondato sul petrolio (e sul gas) ad un altro nel quale sarà riorganizzato l’intero modello di produzione e distribuzione dell’energia.
All’inizio degli anni Settanta quando l’Arabia Saudita – dopo essere stata umiliata, insieme a siriani ed egiziani, nell’ennesima guerra con Israele – guidò l’embargo che determinò la prima grande recessione, Dubai era poco più di un villaggio di commercianti di perle. Le scoperte di giacimenti condannavano il piccolo regno ad essere l’unico quasi totalmente sprovvisto dell’oro nero che rese gli altri emiri immensamente ricchi ed influenti. E fu allora che lo sceicco di Dubai, Saeed Bin Al Maktmum, ebbe l’idea che riuscì a trasformare lo svantaggio in un punto di forza.
La scommessa fu quella di investire sul Jebel Ali, il più grande porto artificiale del mondo, costruito di fronte all’Iran e a pochi chilometri dal deserto che arriva in Arabia Saudita. Attorno al porto venne istituita una zona franca (con tasse molto basse e pochi vincoli burocratici) nella quale in enormi parchi industriali le grandi aziende occidentali facevano confluire i componenti da assemblare in automobili ed elettrodomestici da riesportare negli altri Paesi del Golfo. Il vero vantaggio competitivo di Dubai fu però l’immigrazione massiccia e controllata di lavoratori arrivati da Paesi poveri – dal Bangladesh alla Malesia – e disponibili a lavorare lunghe ore pur di rimettere alle proprie famiglie quanto basta per sottrarle alla miseria.
Quel modello ha funzionato fino a quella mattina di settembre del 2001 nel quale altri arabi decisero di sgretolare a New York le torri che erano il “centro del commercio mondiale”. Quando la crisi finanziaria del 2008 chiuse una fase di globalizzazione senza limiti, il nuovo emiro, figlio di Saeed, trovò la forza di reiventare il modello. Oggi Dubai non è più solo un grande centro commerciale, ma un mega parco dei divertimenti che punta sul turismo e sulle imprese attratte nella propria “internet city”. Nel futuro c’è, però, l’energia solare sulla quale i Paesi del deserto hanno un ovvio vantaggio di localizzazione. A Dubai, che ospiterà quest'anno COP 28, si progetta il più grande parco solare del mondo che avrebbe bisogno di tecnologie europee.
Oggi accanto ai lavoratori meno cari del mondo, ci sono circa trecentomila professionisti capaci di gestire aziende di livello mondiale e duecentomila oligarchi (soprattutto russi) che si sono trasferiti in un luogo talmente artificiale che sembra fuori da un mondo sempre più complicato. La fabbrica del Medio Oriente ha progressivamente spostato il suo interesse verso quella “fabbrica del mondo” che è stata la Cina ed è, di gran lunga, il primo partner commerciale degli emirati. L’Europa è quasi scomparsa: il primo paese europeo per scambi con l’emirato è la Germania al settimo posto. L’unica costante sembra essere che la città del futuro non smette di correre.
Come nella Metropolis immaginata cent’anni fa, convivono a Dubai un’umanità abituata ad osservare il mondo da terrazze sospese nel vuoto e una “classe sociale” molto più estesa di ospiti disposti a vivere in dormitori pensati per assicurare la massima efficienza. Nel film di Lang la rivolta viene evitata grazie alla “forza dell’amore” che unisce il figlio del proprietario della città ad un’operaia. A Dubai ad unire due ceti sociali così distanti c’è la convenienza a condividere un metodo che, per alcuni, crea ricchezza e, per altri, l’unica alternativa alla povertà assoluta. È un modello di sviluppo che contiene una grande contraddizione. E, tuttavia, l’Europa deve confrontarcisi se vuole inventarne un altro capace di riconquistarle consenso nel Sud del mondo. Per dare concretezza al programma di “difendere il proprio stile di vita”.