Il mondo è grande abbastanza per la Cina e gli Stati Uniti

Janet Yellen, sottosegretario al Tesoro dell’amministrazione guidata da Joe Biden, è intervenuta a Pechino, sottolineando la necessità di una buona cooperazione tra Stati Uniti e Cina.

Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero e Il Gazzettino del Nord Est

 PANDA USA

“Il mondo è grande abbastanza per la Cina e gli Stati Uniti”.

Il buon senso delle parole pronunciate a Pechino da Janet Yellen, sottosegretario al Tesoro dell’amministrazione guidata da Joe Biden, si scontra con le teorie cervellotiche di chi, invece, crede che dei due giganti dell’economia mondiale ne potrà restare in piedi solo uno (come in un film di qualche anno fa).  Secondo questi intellettuali sofisticati, i due "Giganti" sarebbero destinati a uno scontro finale che verrebbe preceduto da un lungo congelamento delle relazioni commerciali, portando alla fine della fastidiosa globalizzazione.

L’arrivo a Pechino, nel giro di un mese, di tre delle più importanti figure del governo federale (la Yellen, appunto, ma anche di Antony Blinken, ministro degli Esteri, e di John Kerry, ’”inviato speciale” sul cambiamento climatico) segna la fine delle chiacchiere: pragmaticamente Washington ammette che questo mondo non si può permettere una "nuova guerra fredda".

È, indubbiamente, la Cina – e non la Russia – il rivale che contende agli Stati Uniti il ruolo di Paese guida nel ventunesimo secolo.  La Cina è già la più grande potenza economica del mondo se aggiustiamo il Prodotto Interno Lordo per il potere d’acquisto (di un quarto più grande degli Stati Uniti).

 Ma è, soprattutto, sul piano più importante – quello delle tecnologie - e, anzi, su quello dell’assorbimento delle tecnologie in una società, che la Cina sta facendo il sorpasso.  Il Paese ospita due terzi delle ferrovie ad alta velocità e la metà della produzione di energia solare e di quella eolica del mondo. E ciò comporta un controllo di competenze e risorse critiche che sta sfuggendo agli Stati Uniti, i quali avevano basato la loro leadership sul dominio scientifico.

Ancora più grave è, però, l’idea che la Cina possa diventare un modello politico- ideologico per la parte di Mondo (il cosiddetto “global south”) che ancora si considera in via di sviluppo.  Nel 1989, al tempo di Tienanmen, la Cina era il paese più povero del mondo, più povero dell'India e della Nigeria. Oggi ha risorse sufficienti per occuparsi di accompagnare lo sviluppo di buona parte dei Paesi dell’Africa sub sahariana. E per costruire – in Medio Oriente - enormi desalinatori dai quali dipende la sopravvivenza di alcune delle nazioni più ricche della Terra. Il pericolo finale è però un’alleanza con l’India, che cambierebbe definitivamente la Storia.

 

Nonostante la competizione tra Cina e Stati Uniti, Biden sembra aver deciso che la Cina non può essere considerata un nemico, e ancor meno si può pensare di dividere ("decoupling") il mondo in due parti. È giusto ridurre i rischi derivanti dalla dipendenza di materie prime e competenze critiche da un solo paese, ma una nuova “guerra fredda”, come quella che oppose Unione Sovietica e Stati Uniti, non è materialmente possibile per una ragione semplice.  Negli anni Ottanta, mentre Gorbaciov e Reagan trovarono intese sulle armi nucleari, il commercio tra le due superpotenze era inferiore al miliardo di dollari. Lo scorso anno, le importazioni degli USA dalla Cina, hanno fatto registrare (nonostante tanta retorica guerrafondaia) un nuovo record, superando i 700 miliardi di dollari. Quando americani e russi si sfidarono nello spazio, si scambiavano solo Vodka in cambio di Coca-Cola. E l’unica grande eccezione fu la FIAT di Valletta che costruì un enorme impianto in una città che i russi dedicarono a Togliatti.                                              

Oggi, l’economia americana e quella cinese sono talmente integrate che il 95% di tutti gli oggetti (I-Phone) che hanno reso Apple la più grande impresa del mondo (per valore di mercato), sono fabbricati in Cina. Peraltro, a Wuhan (la città dove è iniziata la pandemia) in un sito industriale di una multinazionale di Taiwan (Foxconn). Tutto questo per evidenziare come, ormai, il nostro benessere è fondato su una dipendenza reciproca che può letteralmente trasformare il battito delle ali di un pipistrello in un disastro ambientale che arriva fino a Roma.

Se consideriamo l’ambiente, il cambiamento climatico – mai così drammaticamente evidente come in questi giorni – offre un altro robusto motivo a Biden per cercare un dialogo con Xi Jinping. La presidenza americana è caratterizzata da un enorme programma di spesa che ha due obiettivi: ridurre l’inflazione e combattere il cambiamento climatico.                                                                                                                                                     

Gli Stati Uniti, senza la Cina, si ritroverebbero a fare i conti con un’inflazione che nessuna Banca Centrale può domare. Inoltre, verrebbe meno anche la speranza di evitare le botte di caldo che manderanno in tilt anche gli stessi dispositivi di sicurezza nazionale.  A sua volta, la Cina, senza costanti scambi con gli americani, si ritroverebbe senza il rivale che ne ha ispirato – passo per passo – lo sviluppo.

È per questo motivo che il futuro continuerà ad essere - come recita la famosa frase di Apple– disegnato negli Stati Uniti e fabbricato in Cina. O, al contrario, perfezionato in Cina e adottato in America. Sarebbe, semmai, per l'Europa, il tempo di svegliarsi e giocare quel ruolo da “mediatore culturale” che in passato l’ha resa grande.

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