Il Mito di Olimpia
tre idee per ritrovarne lo spirito
Articolo di Francesco Grillo su Il Messaggero.
Si racconta che in quella Grecia classica che vide nascere i miti della cultura occidentale, le Olimpiadi si tenevano ogni quattro anni nella stessa località, dove attorno ad una gigantesca statua di Zeus c’era un villaggio olimpico con stadi e piscine. Tutte le città-Stato erano impegnate a concedersi una tregua che interrompesse le loro rivalità infinite per consentire agli atleti di raggiungere Olimpia. In età moderna, è dall’edizione di Barcellona (1992) che le Nazioni Unite chiedono ai Paesi del mondo una simile tregua: essa dovrebbe valere dalla settimana che precede le Olimpiadi e finire con la cerimonia di chiusura dei giochi paraolimpici. Ma, sin dall’inizio, si sono ripetute violazioni che il Comitato Olimpico Internazionale sanziona senza successo. Le contraddizioni tra lo spirito reinventato da un francese e l’ideale della pace sembrano però particolarmente dolorose a Parigi.
Fu ad Atene che, nel 2004, per la prima volta la fiamma olimpica fu trasportata da Olimpia dopo aver girato il mondo per ricordare a tutti che la pace è un imperativo morale. Quasi regolarmente, però, i giochi si ritrovano a fare i conti con guerre che non si fermano di fronte a nulla. Nel 2022 furono paradossalmente i cinesi a dover comunicare al comitato olimpico russo che l’invasione dell’Ucraina ne rendeva impossibile la partecipazione alle paraolimpiadi invernali. I russi e i bielorussi sono quasi completamente esclusi anche da Parigi (con l’eccezione di undici atleti che partecipano a titolo individuale) ma non pochi hanno chiesto di applicare lo stesso metro nei confronti degli israeliani. Il risultato finale è che proprio mentre le olimpiadi di Parigi sognano sulla Senna un mondo senza confini, il mondo vero precipita verso nuovi abissi e la tragedia di Gaza si sta trasformando in un incendio che nessuno potrebbe più controllare.
In effetti sono almeno tre i problemi di cui, prima o poi, un’interpretazione realistica di un grande valore deve imporre una soluzione.
Innanzitutto, il doppio limite delle esclusioni. Esse hanno, innanzitutto, l’effetto controproducente di estendere ad un intero popolo (che, spesso, si riconosce nei propri eroi sportivi) la condanna sacrosanta di un governo; in Russia, ciò può aumentare il consenso per chi decide di fare la guerra. Diventa, inoltre, difficile essere equi in un mondo che conta oggi più conflitti armati (52) tra Stati sovrani che in qualsiasi altro momento dopo la Seconda guerra mondiale. Più logico e giusto sarebbe adottare una risoluzione permanente che raggruppi sotto la stessa bandiera bianca tutti gli atleti che si impegnano (nei limiti della salvaguardia della propria incolumità) a promuovere quella carta delle Nazioni Unite che è ripudiata dai propri governi: potrebbero diventare loro, protetti e finanziati dal Comitato Olimpico Internazionale, potenti ambasciatori di pace.
In secondo luogo, c’è la questione del laicismo che diventa – esso stesso – religione e dunque nega sé stesso. È stata Amnesty International a denunciare il divieto imposto alle atlete francesi di non indossare quel velo (hijab) che è associato a precetti del Corano. È sacrosanto associare allo sport l’idea dei diritti universali ma, per la stessa ragione, non si può vietare l’utilizzo di segni di fede per chi sceglie di farlo (così come a nessuno viene in mente di limitare quei tatuaggi che sono simboli di culti che sono, invece, individuali).
Infine, l’universalità di certi valori. Alla cerimonia di apertura delle olimpiadi gli atleti sono diventati marginali e ancora di più lo erano le delegazioni non appartenenti al mondo occidentale. A sfilare per ultime sotto la Torre Eiffel, finalmente luminosa come la città che celebra, sono state le nazionali americana e francese. Certo questo è il semplice riflesso del fatto che è Parigi ad ospitare per la terza volta l’edizione del 2024 e Los Angeles che lo farà (sempre per la terza volta) nel 2028. E, tuttavia, è vero che gli Stati Uniti e la Francia hanno complessivamente ospitato un terzo (18) delle 57 edizioni estive ed invernali di giochi che sono arrivati una sola volta in Sud America e mai in Africa. È una visione universale ancora fortemente radicata nei miti che pure avemmo il merito di nutrire prima ad Olimpia e poi a Roma.
E, però, il mondo sta cambiando non solo per valori economici, ma persino sportivi: a una settimana dall’inizio dei giochi, la Cina vinse la sua prima medaglia d’oro nel 1984; a Parigi, dopo una settimana di gara, è al primo posto nel medagliere. L’India ha vinto la sua prima gara nel 2008: dovrebbe essere interesse di tutti (persino commerciale) che non si limiti a “partecipare”. La missione del Comitato Olimpico deve essere quello di usare la leva dello spettacolo globale per promuovere sviluppi nuovi. Successe a Rio; presto deve poter succedere a Bangalore o a Nairobi.
Fu un francese ad intuire, nel 1898, che lo sport può promuovere un nucleo di valori che appartiene a tutti e che la Francia fu la prima a codificare. L’intuizione di De Coubertin si è però logorata tra eccessi di retorica e interpretazioni dei burocrati che amministrano – a Losanna – un progetto che vale quattro miliardi di euro all’anno. Per ridare alle Olimpiadi il senso che lo sport vero ispira, abbiamo bisogno di idee nuove. Visionarie e pragmatiche come quelle che i greci custodivano ad Olimpia.
Referenze:
CBS News. (2023, July 25). Here are the countries participating in the 2024 Olympics in Paris. Link
The Economist. (2021, August 8). Olympic glory tends to go hand-in-hand with economic clout. Link
The Conversation. (2023, June 30). What the 2024 Olympics tells us about global geopolitics. Link