I Paesi Brics e la spinta per un nuovo ordine mondiale
Si è sfaldato l'ordine mondiale che era costruito attorno alla supremazia tecnologica degli Stati Uniti?
Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero.
“È un piccolo passo per un ragno. Ma un balzo in avanti enorme per l’India”. Il principale quotidiano indiano non ha potuto evitare, qualche giorno fa, la parafrasi delle parole più famose della storia; quelle pronunciate mezzo secolo fa da Neil Armstrong mentre saltava in un cratere sulla linea equatoriale della Luna. E, tuttavia, gli indiani hanno superato gli americani: sono riusciti ad atterrare vicino al Polo sud del satellite: nella zona nella quale l’allunaggio era ritenuto quasi impossibile, ma anche quella nella quale potrebbe esserci il ghiaccio e, dunque, la possibilità di una permanenza umana. Un successo straordinario che spiega come si sia sfaldato un ordine mondiale che era costruito attorno alla supremazia tecnologica degli Stati Uniti. Un simbolo, però, anche di ciò che divide le coalizioni di Stati che sfidano antiche egemonie. E come l’Occidente potrebbe contribuire a costruirne uno nuovo e del quale accetti di non essere più il solo centro.
Solo tre giorni prima del trionfo indiano, non molto lontano dalla zona di allunaggio, si è schiantato il veicolo che avrebbe dovuto portare la Russia sulla Luna, dopo essere stato il primo Paese ad avervi portato un proprio vettore nel 1959 (quando era ancora Unione Sovietica). Anche nella simbologia della corsa allo spazio, non potrebbe essere più chiaro come gli stessi Paesi che fanno parte dei BRICS (sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) sono a stadi di sviluppo completamente diversi. La Russia è isolata, in mano ad un gruppo di oligarchi che probabilmente non sono più neppure capaci di manutenere l’immenso arsenale nucleare lasciatogli in eredità dall’URSS. All’estremo opposto, l’India è la più grande democrazia; il Paese con il maggior numero di laureati del mondo e quello al quale le imprese di tutto il mondo affidano la gestione dei propri servizi informatici (“outsourcing”); nonché quello con il più avanzato sistema pubblico di riconoscimento facciale che abilita molte altre innovazioni.
Ma forti sono le divergenze anche tra Brasile e Cina. Per non parlare di quelle tra Argentina e Arabia Saudita. O tra Sauditi e Iran che, pure, presto andranno ad ingrandire il BRICS per farlo diventare più grande del club dei sette Paesi (G7) che guidano l’Occidente. E allora cosa davvero unisce gli undici Paesi che hanno deciso di rappresentare il “Sud Globale”? Cosa li accomuna, oltre a quello che molti frettolosamente chiamano “antiamericanismo”?
In realtà, aldilà dell’antipatia per i “primi della classe” (che è comunque mescolata all’accettazione di una cultura anglosassone ancora dominante sul piano dei linguaggi e dei simboli), leader come Modi, XI Jinping e Lula sono caratterizzati da un forte pragmatismo. La loro alleanza, a differenza del G7, ha il vantaggio di avere un obiettivo più specifico: la riforma di un sistema finanziario che ha consentito nei decenni un regolare e ingente trasferimento di risorse dal resto del mondo agli Stati Uniti. Che, in cambio, svolgevano un difficilissimo ruolo da super potenza solitaria.
La Banca Centrale americana può, infatti, finanziare la risposta alle crisi emettendo moneta che però non si svaluta essendo il dollaro “comprato” anche per regolare Il 90% (secondo la Banca dei regolamenti internazionali) delle transazioni commerciali internazionali e come denominazione del 58% delle riserve valutarie del mondo. Ovviamente tale vantaggio non è imposto da una legge ma dall’affidabilità del Paese che guida il mondo dal 1944: l’anno in cui a Bretton Woods fu concepito un sistema globale di pagamenti basato sul dollaro.
Non bisogna però essere “antiamericani” per riconoscere che questo sistema non funziona più. E che, anzi, non è coerente con i principi della economia di mercato che gli americani hanno insegnato ovunque. Dalla grande crisi finanziaria del 2007, il peso del debito pubblico del governo federale sul PIL è più che raddoppiato (dal 63% fino al 107% prima del COVID; e fino al 129% nel 2022). Per l’ennesima volta, solo un compromesso tra repubblicani e democratici ha evitato un “fallimento” e due delle tre grandi agenzie di rating hanno già revocato il giudizio di massima solvibilità degli USA. E sembra non essere più accettabile neppure un sistema – quello appunto nato a Bretton Woods – fondato su istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale nel cui capitale pesa più la Germania che l’India e il Brasile messi insieme. Che, per definizione, ha un europeo come amministratore delegato; mentre è sempre indicato dagli americani il Presidente della Banca Mondiale.
Il resto del mondo sembra non essere più disposto a finanziare una leadership che non garantisce più ordine. E neppure ad accettare leadership che non rispecchiano i valori in gioco. L’Europa e gli Stati Uniti devono anticipare una domanda di un nuovo ordine mondiale. Partendo dalla questione della riforma radicale di istituzioni che hanno 80 anni. E riconoscendo di non poter essere più il solo centro. Prima di essere spiazzati dall’emersione di un sistema alternativo a quello esistente. Un mondo spezzato in due o più parti è esattamente ciò che il grande economista Keynes provò ad evitare a Bretton Woods: sarebbe il contrario di ciò che esigono le crisi veloci che rischiano di travolgere tutti.