Democrazia e Tecnologia

 La natura di una crisi

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Editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero

“La libertà non è uno spazio libero; libertà è partecipazione”. Fa bene Romano Prodi a concludere il suo commento sulla crisi delle democrazie parafrasando le parole che scrisse Giorgio Gaber nel 1973. C’è da dire che “libertà” e “democrazia” non sono concetti che coincidono e possono, persino, separarsi. E, tuttavia, è vero che l’idea che siano i cittadini ad esercitare la sovranità, ha come presupposto che siano essi stessi (come dice un principio fondamentale della Costituzione) a “partecipare all’organizzazione del Paese”. Oggi c’è, però, un’enorme novità che pesa sul “pieno sviluppo della persona umana” che è condizione di una partecipazione piena. È la tecnologia che mette in crisi i modelli di democrazia che i costituenti avevano a disposizione; ed è la tecnologia che può forse risolvere il problema da essa stessa creata. 

Che la democrazia sia in crisi è dimostrato non tanto dall’ascesa dei partiti cosiddetti populisti (del resto non è del tutto ovvio che adattare la propria agenda politica alle domande del popolo, sia non democratico) ma dalla relazione che esiste da trent’anni tra livello di democraticità di diversi Paesi e il loro tasso di crescita. 

Ci sono diversi, prestigiosi istituti che misurano quanto un Paese sia democratico o, per essere più precisi, vicino ad un modello parlamentare e, tendenzialmente, liberale che è la versione di democrazia che fu inventata dagli inglesi nel 1689. Quello calcolato dal settimanale inglese ECONOMISTdice solo 24 Paesi (su 190) sono “democrazie complete” e che il loro numero di democrazie liberali è in costante declino. Ma, soprattutto, emerge che negli ultimi 30 anni, il livello di democrazia e il tasso di crescita del PIL sono negativamente correlati. In altre parole, sembra che quanto più sei democratico meno cresci e tale evidenza permane se ripetiamo il calcolo solo per i paesi in via di sviluppo. O solo per quelli che sono già sviluppati.

Sembrerebbe, insomma, che essere democratici comporta un costo e, del resto, le stesse classi dirigenti europee sembrano rassegnate all’idea che (come disse il Presidente della Commissione Europea, JUNCKER) “sappiamo perfettamente cosa fare per aggiustare le nostre economie, ma non sappiamo come venire rieletti, una volta che lo abbiamo fatto”. 2

In realtà, se assumiamo un orizzonte temporale leggermente più lungo degli ultimi 30 anni, la situazione si ribalta. Per tutto il diciannovesimo e il ventesimo secolo, il numero di democrazie fu in crescita ed esse dimostrarono di essere capaci di produrre più ricchezza dei propri rivali autocratici (il nazifascismo e poi il comunismo) e di distribuirlo meglio. Esattamente il contrario di ciò che sta succedendo dal momento (1989) in cui della democrazia liberale si celebrò il trionfo definitivo.

Il motivo per il quale le democrazie avevano vinto su un piano di efficienza economica per 200 anni, è che esse avevano un vantaggio informativo.A differenza dei socialismi scientifici – sono più capaci di riflettere nelle decisioni politiche che riguardano tutti, i bisogni delle persone, le loro opinioni sull’operato di chi governa, le intelligenze individuali. Ed è questa la questione centrale sulla crisi della democrazia che sfugge a chi prova a comprenderne la natura inseguendone i suoi mille sintomi (in Paesi tanto diversi come possono essere l’Austria rispetto all’Italia o rispetto agli Stati Uniti).

La democrazia ha perso il suo vantaggio informativo perché l’informazione (che è potere) è stata radicalmente riallocata da una rivoluzione tecnologica grande quanto lo fu l’invenzione della stampa. 

La tecnologia (INTERNET e stanno arrivando forme di intelligenza artificiale) rende obsolete le forme attraverso le quali la partecipazione (quella di cui parlava Gaber) si esercita. E ne dovremo inventare altre: in Estonia utilizzano da decenni il voto elettronico che del voto riduce fortemente il costo; in Svizzera da secoli decidono attraverso forme di democrazia diretta anche dell’abolizione del segreto bancario dimostrando che non tutti i referendum sono congegnati male come quello famoso della Brexit; in città come Vancouver e a Melbourne dimostrano che coinvolgere i cittadini nella pianificazione dei lavori pubblici aumenta il consenso e migliora la qualità delle opere. Canada, Estonia, Australia, Svizzera: non è un caso che i Paesi e le città che utilizzano canali di partecipazione più articolati (rispetto alle sole elezioni) sono anche quelli dove si vive meglio. 

La tecnologia che ridistribuisce informazione, trasforma le forme attraverso le quali il potere si acquisisce, si esercita, si limita. Proprio come successe con quella di GUTENBERG e che ci portò dritti nell’età moderna e alla liquidazione delle monarchie moderne, Internet esige un cambiamento del modo attraverso il quale trasformiamo le intelligenze individuali in decisioni politiche. È questa la questione che non possiamo più rimandare facendo finta di essere vittime solo di mille crisi nazionali che, analizzate separatamente, non fanno una teoria di ciò che sta succedendo. E, neppure, restituiscono una possibile soluzione. La tecnologia sta erodendo la democrazia che abbiamo; può essere la leva per inventarne una molto più evoluta.

1 Jean-Claude Juncker, The Economist (2007), "The Quest for Prosperity".

2 The Economist (2024) "Democracy Index: conflict and polarisation drive a new low for global democracy"

3  Grillo, F., & Nanetti, R. (2020). Innovation and democracy: the twin paradoxes. Area Development and Policy5(3), 233–255. https://doi.org/10.1080/23792949.2020.1777880 

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