Cosa rimarrà del lavoro?

Intelligenza Artificiale e mercato del lavoro: un necessario aggiornamento alle previsioni del periodo pre-Covid

L'editoriale di Francesco Grillo per Il Messaggero, Il Gazzettino del Nord Est e Il Mattino.

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Cosa rimarrà del lavoro, di quello che è il valore fondante delle società plasmate dalle rivoluzioni industriali dei secoli scorsi, quando – tra non più di dieci anni - l’intelligenza artificiale avrà dispiegato i suoi primi, sostanziali effetti? Il fantasma dell’ultima potente accelerazione della rivoluzione tecnologica che viviamo da alcuni decenni, deve aver agitato le celebrazioni di una festa – il primo maggio – che celebra un mondo che sta finendo se non si rinnova radicalmente.

Che il mondo del lavoro sia di fronte ad una sfida senza precedenti, è dimostrato dal fatto il Consiglio per il Commercio e la Tecnologia, appena costituito da Stati Uniti e Unione Europe,  dedicò, nel dicembre dello scorso anno e a una settimana dopo il lancio dell’applicazione CHATGPT-3.5, uno dei suoi primi incontri all’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro. Quel documento ribaltava ciò che si riteneva per acquisito fino a qualche mese fa, quando si discuteva dell’impatto di Internet sull’occupazione.

In un famoso studio dell’Università di Oxford che, nel 2013, cercò di valutare – lavoro per lavoro – quanto ciascuna occupazione fosse suscettibile ad essere automatizzata, si riteneva che a essere messi in discussione fossero le attività routinarie (che processano informazioni secondo schemi prestabiliti, come nei call center), mentre apparivano meno sostituibili quelli che molto utilizzano le mani o i sensi (in cucina, ad esempio); la creatività (ad esempio, dei pubblicitari); e i lavori nei quali conta la vicinanza fisica o emotiva (quella degli insegnanti con gli studenti o dei preti con i fedeli). Nello studio di Oxford, come in quello simile della McKinsey (del 2014) era elevato il numero delle posizioni di lavoro che sarebbero state esposte a processi di automazione, ma in entrambi si precisava che all’interno dello stesso lavoro convivevano pezzi di attività automatizzabili ed altre che sarebbero rimaste umane.

Non è più così. Per effetto di due potenti spinte.

Innanzitutto, l’intelligenza artificiale di ultima generazione ribalta ciò, perché riesce a imitare l’uomo. Ed è nell’imitazione del comportamento umano, la vera natura dell’intelligenza di una macchina, come intuì l’inventore dei computer moderni, Alan Turing. La possibilità di comprendere il linguaggio naturale (in maniera molto più articolata degli assistenti digitali di Google) aumenta esponenzialmente il numero di problemi alla quale la macchina è chiamata a fornire risposte e, dunque, il numero di problemi che impara a risolvere.

Il processo è, poi, completato dalla convergenza con altre due tecnologie. Quella che – prima ancora che fosse lanciata la CHATGPT che reagisce a testi scritti – ha portato alla comprensione di comandi vocali (come, appunto, in Siri o in Alexa) semplici e che incorporando le tecniche delle reti neuronali amplieranno di molto le proprie possibilità. Dall’altra con veri e propri robot che acquisiranno nel tempo capacità manuali simili a quelle dell’uomo (che, secondo alcuni, ha nella versatilità delle proprie mani il proprio vero, straordinario vantaggio competitivo), laddove al momento i robot sono impiegati per muoversi con logiche lineari (quelle delle catene di montaggio, dei magazzini di Amazon o dei robot domestici per la pulizia dei pavimenti).

Al termine del processo – ed è ragionevole pensare che tecnicamente esso verrà compiuto in non più di dieci anni, laddove i suoi effetti significativi sono già cominciati – faranno irruzione nella nostra vita veri e propri androidi. Capaciti di imita sempre meglio l’uomo. Persino nella capacità di inventare sbagliando. Ma con una potenza e una velocità di calcolo a noi impossibile.  E ciò porta la sfida ad un livello diverso.

Non sono più al sicuro né i dirigenti (soprattutto quelli non abituati a rischiare), né i medici (anche perché ha la sanità ha tragicamente bisogno di maggiore efficienza). Ha ragione il rapporto di Talent Garden a ricordare che in Italia mancano migliaia di esperti di digital marketing e di programmatori: il problema è che perdurando tale carenza, le imprese avranno un ulteriore incentivo a sostituire tali figure con un robot. Ed è chiaro che in un contesto nel quale persino la natura dell’impresa è in discussione – il lavoro a distanza è ormai diventato un diritto nuovo – saltano gli stessi schemi delle relazioni industriali.

Tre le risposte che dobbiamo riuscire ad elaborare.

Innanzitutto, dovremo riuscire ad usare l’inevitabile riduzione della quantità di lavoro che le tecnologie progressivamente inducono, in maniera da liberarci dalla fatica senza aumentare diseguaglianze che già stanno frantumando società fragili. Il fenomeno non è nuovo e i tassi di occupazione a livello globale sono da tempo in diminuzione, così come lo è il numero di ore lavorate per occupato. Come nel passato, occorrono politiche che facciano dell’aumento della produttività che la tecnologia abilita, la leva per aumentare gli investimenti in attività nuove (nei prossimi anni, c’è da completare una colossale trasformazione degli apparati produttivi per diminuirne l’impatto ambientale) e per finanziare un nuovo modello di welfare capace di rispondere domande di protezione nuove.

LAVORO OCCUPAZIONE UE IN DECRESCITA

In secondo luogo, bisognerà investire nelle competenze necessarie a creare lavori nuovi. Esso sono quelli nei quali la macchina non potrà mai sostituire l’uomo. Il robot non pensa infatti, e si limita a imitare i nostri processi cognitivi. Mai potrà sentire emozioni e persuaderci, anche se talvolta potrà farci sorridere. In pratica, per salvarci da una progressiva obsolescenza tecnologica, dovremo investire ancora di più in ciò che rende umani. Se continuassimo noi a imitare le macchine, ragionando in maniera politicamente corretta e cercando di escludere dalla nostra vita le passioni, diventeremmo inutili. È a scuola e persino sui libri di filosofia e matematica, che si gioca la partita più importante.

In terzo luogo, in un mondo nel quale molto più rapida diventa la liberazione dal bisogno, occorrerà evitare che un eccesso di energia non utilizzata possa, come intuiva Keynes, spingere le persone a perdere senso del proprio ruolo e le società a diventare pericolosamente pigre. L’impegno nel volontariato, nella protezione di debolezze che i computer non faranno sparire, può essere una chiave di futuro.

L’errore più grande che possiamo fare è però immaginare che possiamo fermare un progresso così veloce arroccandoci nella difesa retorica di una stabilità che non c’è più. Il ricordo delle lotte che servirono in un’altra epoca a superare l’insostenibile frattura tra chi traeva enorme profitto dalle macchine e da chi, invece, ne era schiacciato, deve servire a recuperare intelligenza. E quell’istinto alla sopravvivenza che sembriamo aver smarrito di fronte ad una complessità che fummo noi a costruire.

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