Un nuovo ruolo per l’Europa puntando sull’ambiente
L’Unione potrebbe essere l’istituzione capace di traghettarci in un futuro più pulito, superando i ricatti che hanno definito un secolo finito 19 anni fa.
Articolo di Francesco Grillo per Corriere della Sera
Quella che doveva essere la più importante campagna elettorale nella storia del Parlamento europeo si sta distinguendo per la quasi totale mancanza di idee su quali sono gli obiettivi di un’Unione Europea che voglia essere all’altezza del ventunesimo secolo. Una delle proposte che può dare forza politica a un sogno logoro è quella di dare all’Europa la delega completa a rappresentare gli Stati che decidano di combattere insieme la guerra che ci giochiamo sul fronte dei cambiamenti climatici. Ciò potrebbe diventare la sperimentazione di un modello di integrazione diverso: focalizzato su pochi grandi traguardi che facciano ridiventare l’Unione il migliore alleato delle generazioni più giovani e superi una retorica che l’ha esposta a troppe promesse mancate facendola diventare il bersaglio di tutti.
Il progetto europeo è minacciato non solo da chi vorrebbe anteporgli gli interessi nazionali; ma anche da chi ha caricato le istituzioni europee di responsabilità che ne superano la capacità finanziaria, politica, manageriale. La retorica di chi vorrebbe che l’Europa risolva ogni problema è un nemico non meno pericoloso di chi addossa all’Europa ogni colpa e, in fondo, le due ideologie contrapposte hanno l’una bisogno dell’altra per sopravvivere. Per ritrovare consenso e prospettive, per rientrare in una partita tra Stati Uniti e Cina che, in questo momento, la esclude, l’Europa dovrebbe, subito, sin dall’insediamento della prossima Commissione, fare uno sforzo di pragmatismo e concentrarsi (per i motivi che articolo in «Lezioni cinesi», il libro appena uscito in Italia) su poche priorità che, più evidentemente, corrispondono ai fallimenti di mercati non governati e di Stati nazionali troppo piccoli.
Puntare le carte migliori dell’Europa sul cambiamento climatico può funzionare per almeno quattro buone ragioni. Innanzitutto, le resistenze a un’integrazione completa sulle questioni legate al riscaldamento globale sono più deboli che su altre politiche. È evidente che il clima attraversa i confini nazionali e che gli Stati europei non hanno la scala — né come produttori, né come consumatori di beni inquinanti — per reagire. Del resto, come dimostrano le cronache delle ultime conferenze delle Nazioni Unite, l’Europa è capace di trovare posizioni condivise sul cambiamento del clima più facilmente che su qualsiasi altro argomento: dalla divergenza sulle tasse sulle imprese che indeboliscono il mercato interno; fino alle guerre che a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste, regolarmente, sanciscono l’irrilevanza dell’Unione nella gestione delle tensioni più gravi.
In secondo luogo, c’è bisogno di un’Europa più forte per rendere più efficaci le strategie stesse che il mondo sta imbastendo per rispondere alle mutazioni dell’ambiente. Al di là del grande rifiuto di Trump, gli accordi raggiunti a Parigi erano insufficienti a invertire un trend che sta puntando verso un punto di non ritorno. Un’Unione che al tavolo dell’ambiente si presenti unita tanto quanto lo è la Cina, potrebbe far valere il peso del mercato più grande del mondo per pretendere regole finalmente vincolanti.
Concentrarsi sul clima offre, poi, un altro vantaggio: dall’unione sul cambiamento climatico si passa, naturalmente, a un ruolo più forte dell’Europa sulla questione più vasta del governo della transizione da un modello concentrato di produzione di energia a uno più distribuito; e partendo dalla necessità di politiche energetiche più efficaci, meglio si può legittimare l’idea che sia l’Unione Europea a diventare l’interlocutore unico di Russia, Arabia Saudita e dello stesso Venezuela.
Infine, un’integrazione di questo tipo porterebbe, progressivamente, al risultato più importante: rafforzare il ruolo nelle istituzioni comunitarie delle città, che sono i luoghi dove si produce buona parte del problema ambientale e delle sue potenziali soluzioni; raggiungere direttamente con premi e sanzioni le famiglie e gli individui che sono parte integrante di una trasformazione delle abitudini che un modello di consumo esige. Ciò porterebbe al superamento di quel rapporto di dipendenza dagli Stati nazione che fu all’inizio della costruzione europea. E che, nel tempo, ne è diventato la sua contraddizione più lacerante. Fare dell’Unione Europea l’istituzione capace di traghettarci in un futurofuturo più pulito e in grado di superare via via i ricatti che hanno definito un secolo che è finito diciannove anni fa. È sull’ambiente che si ricostruisce un rapporto responsabile tra generazioni e luoghi diversi e che l’Europa ridiventa il progetto nel quale i più giovani si ritrovano, come fu per quelli cresciuti viaggiando tra università di Paesi diversi. È concentrandosi sull’ambiente che una nuova leadership europea potrebbe sperimentare un metodo di integrazione che dia all’Europa una dimensione più coraggiosamente politica. In fondo, all’ideologia del ritorno al passato si resiste solo opponendo una volontà di futuro altrettanto forte e di direzione contraria.